La sentenza della Cassazione, sezione lavoro n. 21965/2018 ha stabilito che non c’è diffamazione se il luogo di dibattito (reale o virtuale, quale può essere una chat riservata) è chiuso all’esterno. In particolare, non costituisce condotta diffamatoria la formulazione di commenti e giudizi – di contenuto fortemente negativo e offensivo, formulati nei confronti di una azienda e del suo amministratore – attraverso l’utilizzo di una chat riservata ai componenti di una organizzazione sindacale (nel caso di specie: su Facebook).
La Cassazione ha affermato che, nell’ambito del gruppo on line costituito sul social network dagli aderenti ad una sigla sindacale, l’utilizzo di affermazioni quali «faccia di m…» e «cogli…» riferiti all’amministratore della società e il riferimento esplicito a metodi «schiavisti» adottati in azienda non costituisce condotta illecita ascrivibile al lavoratore autore di tali affermazioni.
CIò che consente di escludere la condotta diffamatoria, contestata dalla società e posta a base del licenziamento per giusta causa, è il fatto  che la chat su Facebook era composta unicamente da iscritti a una specifica sigla sindacale e, quindi, doveva considerarsi alla stregua di un luogo digitale di dibattito e scambio di opinioni chiuso all’esterno e utilizzabile solo dai membri ammessi.
La Cassazione valorizza questo dato e afferma che le conversazioni intervenute in un ambito sindacale circoscritto ad un gruppo limitato di persone costituiscono esercizio del diritto costituzionalmente protetto alla libertà e segretezza di corrispondenza. Il diritto alla segretezza della corrispondenza, precisa la Cassazione, ricomprende ogni forma di comunicazione, incluso lo scambio di opinioni e discussioni tramite i mezzi informatici resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia.
La Cassazione osserva che, alla luce degli standard presenti nel contesto sociale odierno, nel cui ambito vanno collocate e contemperate le esigenze di tutela della libertà di espressione della persona rispetto al compimento di condotte offensive o diffamatorie, l’utilizzo di frasi pesanti costituisce mera “coloritura” entrata nel linguaggio comune. Una diversa valorizzazione di espressioni di tale tenore confligge, ad avviso della Cassazione, con la libertà di critica, inclusa quella di natura sindacale.
Le offese, anche pesanti, quindi sono solo una mera nota di colore in una discussione e non costituiscono offesa e diffamazione, se circoscritte ad un ambito ristretto (quanto non è dato sapere) e limitato (con accesso riservato solo a determinate persone).
La Cassazione ha quindi statuito l’illegittimità del licenziamento disciplinare, con reintegrazione in servizio del lavoratore e condanna al risarcimento del danno parametrato alla misura massima di 12 mensilità.

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