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Tutele crescenti: l’offerta conciliativa perde il suo appeal

Dopo la sentenza della Corte costituzionale del 26.9.2018 che ha dichiarato l’illegittimità del calcolo “automatico” dell’indennità di licenziamento, perde efficacia dissuasiva la procedura di conciliazione prevista dal D.Lgs. 23/2015, almeno per quanto riguarda le aziende con più di 15 dipendenti.

Il D.Lgs. 23/2015, infatti, ha previsto un’esenzione fiscale e contributiva integrale per l’indennità risarcitoria corrisposta – a mezzo assegno circolare e presso le “sedi protette” – nell’ambito della conciliazione con il dipendente (purché assunto dal 7 marzo 2015) a fronte della rinuncia da parte di quest’ultimo all’impugnazione del licenziamento.

L’indennità deve essere calcolata secondo l’automatismo indicato nell’art. 6 del Dlgs, (e nell’art. 9 per le aziende che hanno fino a 15 addetti ossia: una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di 3 e un massimo di 27 mensilità per le imprese con più di quindici dipendenti, e mezza mensilità per ogni anno di servizio con un minimo di 1,5 e un massimo di 6 per le imprese di dimensioni inferiori.

Nonostante la decisione della Consulta non abbia interessato tale meccanismo, appare evidente la poca convenienza – soprattutto per un lavoratore occupato presso un datore di lavoro di maggiori dimensioni – ad accettare una offerta conciliativa parametrata esclusivamente sul criterio dell’anzianità di servizio, posto che la semplice agevolazione economica dovuta alla completa esenzione da contribuzione e tassazione della somma percepita e rapportata unicamente all’anzianità di servizio non è tale da superare la convenienza a “tentare” la strada del contenzioso che potrebbe comportare la condanna del datore di lavoro a corrispondere un indennizzo ben più corposo, tale da risultare conveniente, anche al netto del prelievo fiscale, rispetto all’indennità concilativa di cui si discute.

Infatti, è evidente che un lavoratore con, ad esempio, un’anzianità di servizio di 3 anni (tanti sono passati dall’entrata in vigore delle tutele crescenti) che si veda offrire un importo pari a 3 mensilità, sia pure esenti da carichi contributivi e fiscali, difficilmente accetterà tale offerta conciliativa rinunciando a un giudizio che, in caso di accertamento dell’illegittimità del licenziamento, potrà garantirgli un’indennità risarcitoria, sia pure da tassare, da 2 fino a 12 volte superiore.

Questa situazione non si presenta con tale ampiezza per le aziende minori, stante la forbice ridotta tra l’importo minimo e massimo dell’indennizzo spettante in caso di licenziamento illegittimo.

Tutele crescenti: illegittimo il criterio del risarcimento basato sulla sola anzianità di servizio

La Corte Costituzionale, con una sentenza del 26 settembre u.s. (le cui motivazioni non sono ancora state pubblicate) ha sancito la illegittimità del criterio per determinare, nei contratti a tutele crescenti, gli indennizzi monetari in caso di licenziamento ingiustificato, basato sulla sola anzianità di servizio del lavoratore.

Le tutele crescenti, sulla scia della legge Fornero del 2012, hanno fortemente limitato la sanzione della reintegrazione nel posto di impiego, sostituendola – nei licenziamenti economici e in parte, in quelli disciplinari – con ristori monetari certi e crescenti, appunto, in base agli anni trascorsi dall’interessato in azienda (la ratio è stata quella di offrire un quadro di chiarezza a imprese e lavoratori, anche alla luce di pronunce giudiziarie che stabilivano indennizzi molto diversi tra loro su criteri spesso del tutto discrezionali).

La’art. 3, comma 1, del Dlgs 23 nella sua stesura originaria prevedeva un indennizzo economico che partiva da un minimo di quattro mensilità fino ad arrivare a un massimo di 24 mensilità, sulla base di un meccanismo di calcolo (a salire) di due mensilità per ogni anno di servizio. Il decreto estivo, in vigore dallo scorso 14 luglio, non ha modificato questo impianto base, limitandosi ad aumentare del 50% gli importi degli indennizzi, portando a 6 mensilità l’indennizzo minimo e a 36 mensilità, il massimo.

Su questo quadro normativo si è innestata la decisione della Consulta, chiamata in causa dal tribunale di Roma. I giudici di legittimità hanno confermato la scelta del Legislatore del 2015, quella cioè di limitare la tutela reale a casi ben precisi e limitati ed estendere quale criterio generale la “monetizzazione” della garanzia offerta al lavoratore licenziato. Sul punto, nonostante le diverse opinioni espresse in occasione della pronuncia, l’impianto delle cd. “tutele crescenti” resta invariato, così come gli indennizzi economici, che anche l’attuale governo ha mantenuto seppure aumentati.

Ad essere oggetto di censura, perché in contrasto con la Costituzione, è stato invece il criterio, ritenuto «rigido», di determinazione degli indennizzi stessi. Per i giudici di legittimità, cioè, la previsione di un’indennità crescente in funzione «della sola anzianità di servizio del lavoratore» è «contraria ai principi di ragionevolezza e uguaglianza, e contrasta, anche, con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Carta fondamentale».

Si apre, quindi, la strada al ritorno di una ampia discrezionalità dei giudici nell’individuazione dell’indennizzo monetario da corrispondere a un lavoratore illegittimamente licenziato (fatti salvi i – pochi – casi di reintegrazione), potendo variare, anche per un neoassunto, da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità, sulla base di criteri non enunciati nella norma; l’unico criterio contenuto nella norma, quello della anzianità di servizio, sopravvive ma non sarà il solo a dover essere considerato e potrà servire solo a determinare la base di partenza dell’indennizzo che potrebbe poi essere variato – non si comprende se solo in aumento o anche in diminuzione – da altri criteri che, inevitabilmente, verranno individuati dalla giurisprudenza.