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Lavoro sportivo: dal 27.10.2023 e fino alla piena operatività del registro la comunicazione di inizio lavoro si fa solo con UNILAV

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota 460 del 26.10.2023, interviene per fornire una importante precisazione in ordine alle modalità di comunicazione dei dati necessari all’individuazione del rapporto di lavoro sportivo. L’INL specifica meglio quanto già previsto nella circolare 2/2023 in ordine alla possibilità di utilizzare per le comunicazioni di instaurazione del rapporto di lavoro sportivo in ambito dilettantistico, alternativamente, i servizi offerti dal Registro delle Attività Sportive Dilettantistiche (RASD) o i servizi offerti attraverso i Centri per l’Impiego, ossia mediante invio telematico della comunicazione UNILAV.

Viene, tuttavia, rilevato che, al momento, il registro non è ancora pienamente operativo, in quanto manca il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o dell’autorità politica delegata in materia di sport, di concerto con il ministro del Lavoro, che individui le disposizioni tecniche e i protocolli informatici necessari. Pertanto, fino alla definizione dello stesso, l’unico modo per adempiere è, quindi, quello di effettuare la comunicazione UNILAV tramite i servizi telematici offerti dai Centri per l’Impiego.

Ne consegue che tutti i soggetti destinatari delle prestazioni sportive (associazioni o società, federazioni, discipline associate, enti di promozione sportiva, associazione benemerita, anche paralimpici, Coni, Cip e Sport e salute Spa) devono procedere alla comunicazione dei rapporti di lavoro sportivo con invio telematico al centro per l’impiego (articolo 9-bis, commi 2 e 2-bis, del Dl 510/1996) entro il 30 ottobre, per chi non ha ancora provveduto in tal senso, oppure entro il giorno trenta del mese successivo, per i nuovi rapporti.

A salvaguardia di chi abbia già adempiuto utilizzando i servizi comunque resi disponibili dal RASD, la nota 460/2023 fa salve le comunicazioni già effettuate entro la data di pubblicazione della nota, ossia il 26 ottobre; in questo caso, non si è tenuti ad effettuare alcuna ulteriore comunicazione al centro per l’impiego, al fine di non gravare di ulteriori adempimenti i soggetti interessati, peraltro con tempistiche molto ridotte.

Si ricorda che, come previsto dalla circolare 2/2023, il mancato adempimento comporta una sanzione amministrativa da 100 a 500 €uro ai sensi dell’art. 19, comma 3, del Dlgs 276/2003

Resta fermo, invece, in sede di prima applicazione, il termine del 31 ottobre per l’effettuazione degli adempimenti e i versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti per le collaborazioni coordinate e continuative in questione, limitatamente al periodo di paga da luglio a settembre 2023.

CCNL vigilanza privata: la retribuzione oraria di 4,607 €uro non è conforme all’art. 36 della Costituzione

Il Tribunale di Catania, con sentenza del 21.7.2023, si è accodato ad altre pronunce simili delle Corti di merito (principalmente Milano e Torino, sia in primo grado che in appello, si veda Trib. Milano 21.2.2023, Trib. Torino 9.8.2019, Corte App. Milano 19.9.2022 n. 626, Corte App. Milano 29.6.2022 n. 579), decretando la non conformità all’art. 36 della Costituzione della paga oraria prevista dal CCNL vigilanza privata – servizi fiduciari, per la mansione di usciere. Dalla declaratoria di non conformità al dettato costituzione deriva, pertanto, la nullità delle clausole del CCNL citato e l’obbligo di applicare i minimi salariali previsti da un altro CCNL affine in base alla attività svolta.

La controversia è stata promossa, dopo la cessazione di un contratto di lavoro a termine, da un lavoratore che ha svolto mansioni di usciere con inquadramento nel livello F del CCNL citato ed ha percepito per la durata del suo rapporto di lavoro una retribuzione mensile lorda di €uro 797,14=, corrispondenti ad €uro 4.607 orari (i valori sono riferiti al CCNL applicato al rapporto e successivamente rinnovato a partire da maggio 2023 con un aumento di 20 €uro mensili lordi per il livello F).

Il lavoratore ha invocato l’inadeguatezza della retribuzione percepita, in quanto non rispettosa dell’articolo 36 della Costituzione, chiedendo il pagamento delle differenze retributive maturate. A sostegno della propria domanda, la difesa del lavoratore ha operato un confronto con altri contratti collettivi applicabili a situazioni similari, ossia: dipendenti da proprietari di fabbricati, terziario (Confcommercio) e multiservizi.

Tutti i CCNL oggetto di comparazione prevedono per mansioni analoghe a quelle svolte dal ricorrente retribuzioni orarie ben superiori: si va dal +48,47% del CCNL multiservizi, al +52,82% del CCNL per i proprietari di fabbricati, al +76,62% per il CCNL terziario (Confcommercio). Anche l’equiparazione con CCNL sottoscritti da organizzazioni sindacali non comparativamente più rappresentative, porta a trattamenti retributivi superiori d 15,41%. Il fatto singolare è che il CCNL applicato al ricorrente risulta sottoscritto da due confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative.

Il Tribunale ha accolto la domanda, richiamando la giurisprudenza di legittimità che ha più volte affermato che i parametri per valutare l’adeguatezza della retribuzione fissata da un CCNL sono i principi costituzionali della proporzionalità e della sufficienza della retribuzione: la proporzionalità è volta a garantire una misura della retribuzione ragionevole rispetto alle energie lavorative profuse, la sufficienza è volta ad assicurare un livello minimo capace di garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

La sentenza, pur riconoscendo che di regola il livello retributivo fissato da un contratto collettivo, soprattutto se stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, è accompagnato da «una presunzione di adeguatezza» (Cassazione 38666/2021), ricorda che tale presunzione non è assoluta ma solo relativa, ben potendo il lavoratore fornire prova contraria. Nel caso di specie, nel solco della giurisprudenza di merito citata infra, proprio il confronto tra la retribuzione tabellare del CCNL applicato al rapporto e quella prevista da altri tre CCNL stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, fa emergere l’inadeguatezza della retribuzione applicata e vince la suddetta presunzione, fornendone la prova contraria.

A questo si aggiunge, secondo la sentenza, la «macroscopica inadeguatezza» di una retribuzione oraria di soli 4,60 euro lordi a garantire un’esistenza veramente libera e dignitosa.

Sulla base di queste considerazioni, il Tribunale conclude rilevando la nullità delle clausole collettive del CCNL della vigilanza privata – servizi fiduciari che fissano la retribuzione per le mansioni di usciere, in quanto gli altri accordi collettivi di settori affini prevedono, per identiche mansioni, una retribuzione di gran lunga superiore. Per individuare la retribuzione spettante al lavoratore in sostituzione di quella fissata dalle clausole nulle, il giudice nel caso di specie, fa riferimento alla disciplina prevista dal Ccnl per dipendenti da proprietari di fabbricati, al livello D1, che viene ritenuto applicabile all’attività di sorveglianza di un’area delimitata e all’attività di controllo degli accessi.

Not in my name: le non condivisibili ragioni sul salario minimo espresse dall’attuale presidente del consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro

Sugli organi della categoria si legge l’opinione del presidente del consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro in materia di salario minimo. Fermo restando che rientrerebbero in questa disciplina non certo tutti i lavoratori ma solo una parte di essi e che oltre ai minimi contrattuali è prassi più o meno usuale che siano contrattati dei superminimi ad personam o trattamenti migliorativi a livello collettivo, aziendale o territoriale, le ragioni esposte non sono condivisibili perché, a parere di chi scrive, autorizzano a ritenere legittimo anche lo sfruttamento più evidente e deteriore (reso possibile da contratti collettivi sottoscritti da associazioni sindacali datoriali e dei lavoratori senza alcuna rappresentanza e, purtroppo, anche da alcuni contratti stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative) in nome della sostenibilità dei conti dell’impresa (per tanto così, allora, potremmo anche prendere in considerazione il ripristino della servitù della gleba o dello schiavismo, per esempio).

Leggere che tali ragioni rappresentano l’orientamento della categoria (di tutta la categoria), però, non è accettabile da parte di chi, come lo scrivente, di tale categoria fa parte, anche perché non risulta che sia stato chiesto alcun parere agli appartenenti alla suddetta categoria ma sia solo una adesione, acritica e atecnica, all’orientamento dell’attuale maggioranza ….

Ciò premesso, lo scrivente reputa che l’intervento legislativo che si limiti a fissare un salario minimo, quale che sia l’importo orario e la modalità di calcolo, sia insufficiente, parziale e tendenzialmente “nocivo”, in quanto potrebbe legittimare una ulteriore “fuga” dal contratto collettivo e l’affermarsi di atteggiamenti datoriali veramente deleteri che potrebbero limitarsi ad applicare il salario minimo, non applicando alcun contratto collettivo e, quindi, in sostanza operando un notevole risparmio, visto che il salario orario è solo una delle componenti del trattamento economico e normativo complessivo previsto dai contratti collettivi di lavoro.

A parere di chi scrive, l’unica soluzione è quella di dare – finalmente – attuazione all’art. 39 della Costituzione e rendere efficace erga omnes il contratto collettivo di categoria (si badi, un contratto solo per ogni categoria) sottoscritto dalle organizzazioni più rappresentative e in misura della loro effettiva rappresentanza), con ciò estendendo a tutti i lavoratori della categoria l’intero impianto contrattuale, comprensivo di tutti gli aspetti economici, normativi, di tutela e di garanzia, individuale e collettiva, previsti.

È altrettanto evidente che un tentativo di estendere, senza attuare l’art. 39 Cost., l’efficacia del contratto sottoscritto dalle associazioni comparativamente più rappresentative, non potrebbe che andare incontro ad una sicura censura della Corte Costituzionale.

Sul punto può essere interessante leggere il contributo della fondazione studi dei consulenti del lavoro che, sostanzialmente, si muove nel senso di sostenere la necessità di estendere l’efficacia dei contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative; manca, però, un tassello essenziale, senza il quale ogni intervento legislativo che si limiti a estendere (erga omnes, altrimenti non servirebbe a nulla) l’efficacia dei contratti collettivi sarebbe a fortissimo rischio di incostituzionalità, ossia l’attuazione dell’art. 39 Cost. A ciò, è noto, si oppone una delle tre Confederazioni Sindacali più rappresentative e in questo senso pare essere schierato anche l’attuale governo.

Trasferimento oltre 50 km e dimissioni per giusta causa: per avere la NASPI non serve dimostrare di voler agire giudizialmente

Con la sentenza 429 del 27.4.2023 il Tribunale di Torino ha statuito una sostanziale equiparazione, ai fini del diritto a percepire la NASPI, tra risoluzione consensuale e dimissioni per giusta causa nell’ipotesi di trasferimento del lavoratore in una sede di lavoro distante più di 50 km od oltre 80 minuti di viaggio con i mezzi pubblici dalla propria residenza (non dal precedente luogo di lavoro, si badi bene).

Secondo la sentenza, infatti, i dipendenti trasferiti in una sede “distante” dalla loro residenza, e che presentano le dimissioni per giusta causa che danno diritto a Naspi, non sono obbligati a provare che il trasferimento era senza privo di ragioni giustificate. Viene, in sostanza, disapplicato il messaggio INPS 369/2018 che, invece, richiedeva che tale prova fosse fornita dal lavoratore dimissionario.

Posto che l’articolo 3 del Dlgs 22/2015 prevede che, oltre a un requisito contributivo di 13 settimane, il lavoratore che richiede la Naspi risulti in stato di disoccupazione e che abbia perduto involontariamente la propria occupazione, si realizzava in base al citato messaggio 369/2018, una sostanziale disparità di trattamento tra il lavoratore che avesse risolto consensualmente il rapporto di lavoro sulla base del trasferimento in un luogo di lavoro distante più di 50 km dalla residenza (o con un tempo di percorrenza coi mezzi pubblici di più di 80 minuti), al quale la Naspi era riconosciuta senza ulteriori oneri probatori, e il lavoratore dimessosi per giusta causa, al quale si richiede una documentazione che faccia emergere la volontà di difendersi in giudizio dal datore di lavoro (allegando diffide, denunce, citazioni, ricorsi) e impegnandosi a comunicare l’esito della controversia.